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Far galleggiare le differenze

Gli oggetti che tu recuperi e inserisci nelle tue opere sono frammenti. Tu raccogli e crei delle wunderkammer miniaturizzate, delle teche della memoria. Qual è il tuo rapporto con i ricordi ?

Tutti questi oggetti sono legati fra loro da un filo sottile che dà loro dignità, che è il valore che ogni cosa ha in sé, il passato, il vissuto di ciascuno di essi. Un geniale amico siciliano, Marcello Conigliaro, mi disse una volta: “Se si guardano le rovine dei templi non vedi che pietre, ma se racconti la storia intangibile che si può trasmettere, anche la pietra più ordinaria e mediocre diventa straordinaria…”. Con lui, vulcanico ingegnere nucleare, creatore del concetto rivoluzionario di tecnologia antropocentrica, ho cominciato un percorso tra arte e tecnologia dove l'arte può essere un racconto che da vita ad un oggetto.
Sicuramente quella di archiviare è una tendenza che ho avuto sin da piccola: archiviavo di tutto, dai giocattoli ai quaderni scritti. Anche con le fotografie c'è un legame forte, in quanto riscopro le emozioni da trattenere. La mia vita è segnata e ricordata attraverso le foto. Anche i miei piccoli quaderni scritti sono come le mie placente, in cui annoto tutte le emozioni, le frasi che mi hanno colpito, le immagini di attimi vissuti e di progetti per i miei futuri lavori…

Nelle tue opere è un elemento molto importante anche i colore? Come lo definiresti?

E' il mio istintivo modo di esprimermi. Sin da piccola accostavo i colori dei miei vestiti seguendo un mio istinto. Il mio interesse si è alimentato negli anni e ho anche studiato e letto molto in merito alla capacità di comunicare attraverso i colori. Ho letto oltre 40 testi che trattano tale argomento sotto il profilo della psicologia, della chimica, della cultura, della religione, della fisiologia, della simbologia e mi hanno introdotto in un mondo straordinario, perché il colore è forma di comunicazione primaria. E' stata l'immersione trascinante nel modo cromatico di Matisse, guidata da un'appassionata storica e critica d'arte, quale la mia docente in Accademia, a farmi pensare al colore come un luogo e un territorio di straordinaria felicità e libertà.

Perché hai nominato l'ultima sezione della mostra Freescapes. Cosa rappresenta ?

Rappresenta la mia grande voglia di libertà, lo stare con gli altri nel rispetto reciproco senza imposizioni che non siano state condivise. Certo, nel buio della solitudine non c'è calore. Infatti, conclusa l'Accademia, con alcuni compagni abbiamo ricreato l'atelier, prendendo in affitto un grande spazio da condividere con sguardi differenti dal nostro, come quello di fotografi e poeti, ed è nato lo studio D'ISTINTO: un luogo di scambio di opinioni, di creazione di progetti per mostre ed eventi artistici, un territorio misto , dove la contaminazione reciproca apriva lo sguardo e la mente. Un'ottima palestra dove sperimentare il “Free…”, un laboratorio di contaminazioni tra linguaggi artistici, che realizzava un'idea che avevo prodotto nella mia tesi di laurea. Poi l'esperienza straordinaria della Biennale Giovani a Niort, in Francia, con le mie compagne di strada, Ketty Tagliatti e Alessandra Lazzaris, sperimentando azioni creative insieme ad altri artisti europei, tra cui quelli spagnoli; e qui l'incontro determinante con Sofia Quagiotto, danzatrice e performer, Marco Lambertini, fotografo, e Franco Selleri, compositore e musicista jazz, con cui abbiamo fondato il “ Free…”. Così sono nate le prime serate a Bologna “cool”, e “free”, poi “momenti d'argine”, e “”living pictures” a Perugia; e dal gruppo ristretto dei primi quattro, è nata una collaborazione ed interazione continua tra me e tanti altri musicisti, come Franco Turra, Marco Coppi, Antonio Onorato, Steven Mercurio, altri danzatori, come Patrizia Cuccagna e Francesca Franzoso, altri fotografi, come Michele Stallo e Mario Ventimiglia, cantanti come Silvia Donati e Luisa Cottifogli, poeti come Alessandro Riccioni, Paolo Donini e Tommaso Binga, scrittori come Piero Sanavio, Simona Vinci, Giovanni Damiani e Pasquale Hamel, fino alla collaborazione per questa mostra anche con Lucio Dalla, Luca Neri, Gianni Marinelli e Saverio Mazzoni e Graziella Pera.
Io credo che l'artista debba tradurre le emozioni che vive per trasmetterle: l'arte è un atto d'amore senza l'ipotesi di un ritorno. Amore e passione per quello che si è e si fà.

Nell'arte viene fuori una koinè linguistica di cui è costituito il tuo DNA. Qual è il tuo albero genealogico ?

Sono nata in una famiglia simbolo di innesti: padre e nonno toscano, nonna veneziana e bisnonno friulano con madre newyorkese, figlia di un barese e nipote di un napoletano. Io mi sento profondamente bolognese e non è un caso che la mia città sia un nodo ferroviario fra i più importanti d'Italia. E' una città nata per essere aperta allo scambio: è la città che in tempi medievali ha creato il portico per proteggere il passante a cavallo. Anche in ciò si può ravvisare un forte senso dell'accoglienza: è una città nata per stare con gli altri, per accogliere gli stranieri , dove è nata la più antica università del mondo e la prima Accademia di Belle Arti, l'Accademia Clementina.

Dei tanti viaggi e delle tante altre città visitate o nelle quali hai vissuto quali hai nel cuore?

Il primo viaggio l'ho fatto a un anno e sei mesi. Ero su un aereo per andare a New York e da lì credo di aver cominciato a capire che esistono tante radici e tanti riferimenti. Ho incominciato a conoscere i vari ceppi di famiglia, dalla toscana alla napoletana. La conoscenza del Sud è partita da città come Pompei, Paestum, Ercolano, Cuma, luoghi che mi hanno consentito di ripercorrere la trama di una storia sino a quel momento conosciuta solo sui libri e poi, a diciotto anni, ho ritrovato le radici pugliesi; una grande famiglia che ho via via conosciuto e che mi ha consentito di visitare numerosi luoghi. Con l'insegnamento in accademia ho enfatizzato questo nomadismo e attualmente sono a Lecce, dopo essere stata a Roma, Venezia e Palermo che è stata una scoperta, in quanto è una città che mi ha letteralmente aperto le porte del Mediterraneo. E' una città affascinante per l'overdose di odori, sapori e colori; mi sono sentita sollecitata alla scoperta di nuove sensazioni e di diverse culture, ed i ragazzi allievi dell'Accademia che ho conosciuto avevano un talento incredibile. Poi ho scoperto la Spagna : l'energia della Navarra, le morbide alture dell'Aragona, la scintillante Bilbao con il titanico museo Guggenheim, il mare e la musica di Minorca, ed i colori della Cataluña, con la vita e le architetture uniche di Barcellona. La dimensione artistica e culturale di questo paese l'ho toccata con mano nello straordinario Museo Mirò, a Barcellona, dove intere famiglie entrano la mattina per trascorrervi tutta la giornata: la vera dimensione dell'arte. La sensazione assoluta che ho provato è stata sempre di sentirmi ovunque a casa mia. Sempre integrata: è una risposta del cuore. Se dovessi scegliere una città su tutte credo che Roma sia la mia città elettiva.

Tante città, territori, amici, una rete fitta di relazioni. Cosa rappresentano le tue ragnatele?

Quando ho realizzato la prima ragnatela nel ‘92 all'interno di una mostra con Pozzati, voluta da un industriale del filato cachemire, dovevamo lavorare con i materiali di questa azienda, e ci ritrovammo in uno studio dove ci arrivarono rocchetti di filo ed ovatta. Da lì mi venne la voglia di fare una ragnatela, stesi un telaio da quadro e mi misi a tessere questa ragnatela al posto del quadro e mentre tessevo mi domandavo se fossi io il ragno o l'oggetto catturato dal ragno. Continuai sul solco di questa domanda irrisolta e ho realizzato altre ragnatele, successivamente in rame. Poi l' ho abbandonata e sono tornata a riproporla quando ho partecipato ad una mostra incentrata sulla tematica dell'acqua, in un bosco. E' come ritornata la magia e l'incanto di quando nelle siepi vedevo queste straordinarie architetture ghiacciate. Sembrava fosse passata la fata del ghiaccio e ho riprovato l'emozione di disegnare nel vuoto. In questo modo è come se si disegnasse l'invisibile, perché la ragnatela si vede solo quando o è sporca o è illuminata, così come la vita delle persone che si rende evidente solo per bellezza o per negatività. La ragnatela è la storia della nostra vita, è un tessuto di relazioni che si possono aprire e chiudere, relazioni che si cancellano e che si possono riscrivere. Anche il ragno, una volta catturato l'insetto, mangia anche la ragnatela per fare tabula rasa e per poi ricostruire.

Come definiresti questo momento della mostra e, soprattutto, quali sono le aspettative per il futuro?

Ritengo si possa parlare di un momento di riflessione, di un giro di boa cui arrivi, sosti, per poi trovare il vigore per ricominciare e tracciare un nuovo percorso o, come dice il mio amico Alessandro Riccioni, “…a lastricare la mia nuova voglia di fuggire” ….

Antonella Lippo

Dopo aver corso a perdifiato, trascinata dalla Regina Rossa, la fiabesca Alice si ferma sotto un albero e si accorge di essere rimasta allo stesso punto. Stupita chiede come mai ciò sia possibile, e la Regina risponde: “ Nel nostro paese per quanto si possa correre si rimane sempre allo stesso punto. Se si vuole andare altrove bisogna muoversi con una velocità doppia”.

Per dare avvio a questo incontro-intervista ho chiesto in prestito a Carroll una sua metafora “fiabesca” che mi sembra possa sinteticamente esprimere il tuo lungo, vorticoso, emotivo peregrinare artistico, ma qual è, a tuo dire e se esiste, l'istante in cui ritieni di aver scoperto che l'arte ti avrebbe condotto a conoscere e sperimentare nuovi territori, con una velocità e un interesse sempre crescenti?

Non posso pensare ad un momento preciso e unico, perché l'atto creativo in sé è generato da una serie di incontri. E' come il non poter parlare di artisti più o meno importanti, di una ipotetica graduatoria di merito che non si può elaborare. Ogni artista ha una sua unicità, in quanto trasmette innovazione e, a sua volta, può ispirare altri artisti. Ogni atto comunicativo è dato da uno scambio emotivo, da situazioni e momenti della vita che inanellano altri momenti creativi, tracciando un processo spontaneo. Io stessa mi sono resa conto che il seme di alcune mie ultime creazioni era già stato gettato anni addietro. Quando sono uscita dall'Accademia, ad esempio, ho cominciato a sperimentare e cimentarmi in diverse situazioni, non essendo neanche pienamente consapevole delle mie potenzialità e della direzione da seguire. Mi sono inconsciamente riappropriata anche del mio vissuto: fra i ricordi personali è riemerso un quaderno in cui, all'età di otto anni avevo disegnato i primi segnali, che definiscono una prima importante fase del mio percorso artistico.

Parlaci di questo momento in cui i segnali assumono diversi significati e vengono reinterpretati attraverso la chiave di lettura del gioco, del doppio senso, del non sense. Come lo hai vissuto personalmente?

Come il trionfo della trasgressione: acquisire totalmente la regola, per poi smontarla, e ricomporla ludicamente, ribaltandone il significato. E poi, coltivare il terreno privilegiato dell'ironia, mantenendo l'equilibrio tra determinazione, impegno, senso del dovere, responsabilità, e senso ludico, gioioso e trasgressivo della vita, con la capacità di poter guardare ogni cosa con lo stupore e l'emozione della prima volta. In questo territorio ho incontrato molti anni fa un vero compagno di strada, Antonio Romano, un architetto che progetta e costruisce immagini ed identità visive. E percorrendo le strade della comunicazione, tre sono le chiavi che mi ha regalato: velocità di pensiero, guizzo creativo e minimalismo semantico visivo. Un canovaccio indispensabile per tradurre con leggerezza la profondità di un concetto attraverso un' emozione.

Il libro ha 7 sezioni, numero cabalistico per eccellenza che sicuramente induce a molteplici riflessioni. Quali le ragioni di una simile scelta?

Sicuramente il numero affascina per la sua valenza esoterica e simbolica, ma è stata una scelta tra il casuale ed il voluto: sette le strade che ho intrapreso per raccontare i miei viaggi sotto la pelle, sette il numero che si presenta spesso nella mia storia personale. Ad esempio, nel 2001 ho realizzato la mostra Ultrasegno, in un luogo alchemico, Villa Benzi-Zecchini (Caerano San Marco, vicino a Treviso): sette miei studenti dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, sette settimane di preparazione, 7/7 il giorno di inaugurazione; una mostra magica, un'esperienza quasi onirica.
Questa volta è stata la malia del cantatore gitano a sedurmi, ed il rapporto tra Federico Garzia Lorca e l'universo numerico: ritmo e segno, parola e spazio, l'idea di un istante come un oceano di tempo.

A chi intendi dare appuntamento in questa mostra. Vogliamo cominciare a ricordare alcuni incontri significativi ?

Do appuntamento a tutte le entità ed essenze di persona che sono entrate nel disegno della mia vita e hanno contribuito a far si che si scatenassero meccanismi di creatività. Gli incontri ci consentono di conoscere le parti non note di noi stessi, che innescano processi creativi. Sicuramente devo molto, in primo luogo, al mio primo compagno di vita, Saverio Mazzoni, che mi ha consentito di continuare e rinvigorire un rapporto privilegiato con la musica, essendo lui stesso musicista. Ed è lui che inizialmente mi ha infuso stima e fiducia per credere nella mia valenza artistica. Poi ad Alessandro Bergonzoni con cui anni fa ho recuperato un goliardico rapporto dei tempi del liceo, in uno scambio linguistico ed artistico sul filo dell'ironia. E ancora, il mio compagno di banco Maurizio Cheli, che dal ginnasio mi diceva che sarebbe diventato astronauta: mi ha dimostrato quanto conti la determinazione senza perdere il senso del gioco, e prendere sul serio la vita, ma mai troppo sul serio se stessi.

Ma in questo percorso creativo della mostra a chi vuoi esprimere riconoscenza?

A tanti! Sono molti i protagonisti dell'arte contemporanea cui sono legata : da Magritte che è stato il primo amore, agli artisti della Bauhaus e del Dada, all'ironia di Man Ray e Duchamp.
E poi ancora incontri con vari artisti da Merce Cunningham a Jonh Cage, ed alla fantastica esperienza che ho vissuto nel loro ”treno”, a Lucio Dalla nella musica leggera, perchè è stato l'artista che sa dipingere le emozioni: un vero cantante visivo. E ancora Costas Varotsos, con il quale ho una sorta di affinità elettiva vera e propria; un grande arista greco che mi ha stimolata a ricercare e raggiungere uno sguardo di sintesi.

La docenza in Accademia ha un ruolo molto importante per la tua vita. In cosa ti ha cambiato?

La docenza è il tassello che dà concretezza alla mia vita. Mentre concepire creazioni coincide a volte con un desiderio egoistico di lasciare traccia di sè, l'insegnamento è per me espressione della parte altruistica, è un dare almeno in parte quello che hai ricevuto. Io ho avuto la fortuna di avere maestri importanti, dal ginnasio con la straordinaria professoressa Landriscina, al mio professore di pedagogia applicata all'arte in Accademia, Marco Dallari, che attraverso successivi laboratori pedagogico-didattici mi ha fatto scoprire il senso della comunicazione artistica come strumento sociale e ludico. I bambini possono ridisegnare il mondo, ed il nostro modo di viverlo, ed io gli insegno ad usare la matita ed i colori per farlo. Infine, su tutti, il mio grande maestro di pittura, Concetto Pozzati che mi ha aiutato a scoprire e a rendermi consapevole della mia attitudine artistica. Era un'operazione difficile, in quanto era necessario disgregare schemi rigidi, acquisiti per riuscire a guardare il mondo secondo corde diverse da quelle mentali. Ho piacere di ricordare due frasi che lui ripeteva e che ho fatto mie: bisogna far galleggiare le differenze, e l'arte deve essere una palestra per gli occhi . Credo che questi siano assunti che dicano tutto sommato quale sia l'unico possibile modo per stare al mondo.

 

In che rapporto quindi sono fra loro l'artista e la docente?

Nella mia vita il fare artistico e l'insegnamento sono inscindibili Creare è un esigenza dell'anima.
Nasco creativa, per non usare il termine artista, che è una parola abusata; e ho l'esigenza di rapportarmi all'arte in tutte le sue manifestazioni.
Oggi purtroppo anche l'arte è regolata da un sistema politico e economico. C'è chi non vuole essere fagocitato e tenta di essere almeno visibile, credendo in un'arte che sia atto comunicativo e specchio in cui potersi riflettere e leggere diversi significati di un'opera, condividendone l'emozione. L'arte non può essere un hortus conclusus.
L'insegnamento è invece uno scambio: io porto la mia esperienza e l'altro mi porta il suo stupore.

Quali materiali utilizzi nelle tue opere. Come nasce la scelta ?

I materiali di elezione sono il vetro, il piombo, la tela, la gommapiuma. Il vetro per la sua trasparenza, la sua fragilità e contemporaneamente la resistenza. Il piombo lo uso come una matita da disegno che lascia una traccia più pesante, la tela è la trama è la superficie e la veste,la gommapiuma è un personale rapporto con la morbidezza e l'imbottitura. In molti miei lavori intendo così recuperare il rapporto tattile, perché vivendo proiettati in un mondo virtuale, ritengo sia un recupero necessario anche del proprio stesso istinto a toccare. Il tatto è il primo senso che si sviluppa nei bambini. Ho creato superfici imbottite per far scatenare la voglia di toccare, per un contatto immediato con l'opera contro il comune orientamento a non poterla toccare.

Quanto vale la curiosità per esprimersi come artista?

Credo molto. Io sono stata educata, soprattutto da mia madre, ad essere curiosa, nel senso che mi ha educato ad allargare gli orizzonti, dal sentire ogni genere musicale dalla classica al rock, al guardare, visitare musei, a memorizzare, acquisendo così una sensibilità elastica. Ogni territorio dell'arte diventa quindi fonte di esplorazione e rigenerazione, e mi rendo conto di quanto sia importante a volte recuperare le stesse energie rituffandomi nelle mostre, nei concerti, nei libri quasi alimentandomi anche con bulimia per ritrovare gli strumenti che alimentano la forza creativa.